Sarà pure una metafora della vita, sicuramente fa tanto belle epoque, specie se ci sono ancora cavalli e carrozze invece delle più moderne astronavi, eppure a me la giostra, in qualsiasi forma sia, mi fa tanta tristezza. Credo di essere stato un bambino felice, spensierato, eppure la giostra mi richiama alla mente quella parte un po’ polverosa, un po’ ingiallita e malinconica dell’infanzia. Un po’ come i clown del circo, il costume di carnevale da Pierrot, gli infiniti orrendi testi della letteratura per l’infanzia (quante persone hanno preso per sempre in odio la lettura dopo il traumatico, e obbligatorio, incontro con “Capitani Coraggiosi”, il libro “Cuore” o “Il richiamo della foresta”?).
La giostra per me è un ricordo associato a questo mondo, a questo pesantissimo retaggio dell’Ottocento che affliggeva ancora la mia generazione ma dal quale fortunatamente le generazioni successive si sono salvate. Ora i bambini passano il tempo alla Playstation, hanno giocattoli sofisticati, viaggiano in lungo e in largo per il mondo dietro ai genitori. Già, eppure. Eppure, la giostra in piazza è sempre affollata di bambini che smaniano per salire, solo un altro giro papà. Boh. Valli a capire.
Quegli inquietanti cavalli dai colori sbiaditi, le espressioni imbarazzate dei padri che accompagnano i bambini piccoli nel giro (e che sembrano voler dire al mondo: “Lo faccio per il bambino, ma io no, non mi sto divertendo affatto, anzi mi viene anche un po’ da vomitare”), i saluti delle nonne che ad ogni giro si fanno più stanchi, quando il movimento circolare riporta davanti a loro i nipotini, che imperterriti e instancabili agitano le manine.
Mi vengono i brividi. No, proprio non la posso soffrire la giostra.