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Una scatola piena di ricordi

Una scatola piena di ricordi

“Arrivano! Chiudi la scatola, presto!”. Mia moglie si affretta a richiudere il contenitore pieno di vecchi giocattoli e peluches, ma non abbastanza velocemente: le bambine sono già lì e incuriosite cominciano a frugarci dentro.

E mentre loro scavano tra i ricordi, mi viene da pensare a me, che sin da bambino ho sempre avuto la propensione a conservare gli oggetti, soprattutto se legati a un momento speciale: conservavo i biglietti dei musei, le tessere dei mezzi di trasporto adoperate durante i viaggi, le diapositive venute troppo scure, e poi le scatole, scatole di tutti i tipi, contenitori di ogni forma e materiale.

Penso che questa inclinazione mi sia stata trasmessa dai miei genitori, a loro volta eredi di una lunga catena di generazioni vissute in epoche di ristrettezze ben maggiori, nelle quali ogni oggetto aveva un proprio, importante valore: per questo si cercava sempre di conservare ogni cosa, perché forse un giorno sarebbe tornata ancora utile.

Invece nel nostro luminoso secolo dell’abbondanza, del trionfo dell’usa-e-getta, nel quale abbiamo un nome per ogni umana debolezza, questa propensione è diventata una patologia chiamata disposofobia, la paura di buttare via le cose. Nei casi più gravi può portare chi ne soffre a riempire di oggetti inutili tutti gli spazi disponibili della propria casa, rendendola di fatto inabitabile.

Nel mio caso, fortunatamente, la pur lieve propensione che avevo si è scontrata con le contingenze di abitazioni che non lasciavano spazio nemmeno al necessario, figuriamoci al superfluo. Mi è rimasta, tuttavia, una certa tendenza ad affezionarmi agli oggetti e ancora oggi faccio sempre un po’ di fatica a buttare via qualcosa. Per questo quando ho visto le mie figlie avvicinarsi allo scatolone pieno dei loro vecchi giocattoli ho pensato: chissà, forse ho trasmesso loro il mio attaccamento alle cose, la mia difficoltà a disfarmene.

Le bambine si avvicinano, prendono in mano qualche gioco, accarezzano uno o due peluches, tirano fuori tutto, ma in pochissimo tempo si stufano, abbandonano il contenitore sventrato e tornano nella loro stanza a giocare, serene, voltando le spalle al loro breve passato.

Io e mia moglie invece rimaniamo lì, con cura rimettiamo tutti gli oggetti nella scatola, guardandoli uno ad uno con affetto. Ti ricordi quanto le piaceva l’elefantino? E come stringeva la Pippi? Quanto avranno giocato tutte e due con questo gioco? Non si stancavano mai! E il Babau!!…
Alla fine quasi di soppiatto sottraiamo un paio di peluches, quelli più carichi di ricordi, e li ficchiamo su una mensola in alto in alto, al sicuro, lontani dai nostri stessi sguardi. Poi chiudiamo velocemente la scatola, per non vedere più.

A quanto pare alla fine la disposofobia non sembra una patologia ereditaria e la prossima generazione – fortunata! – ne sarà immune; sarà più leggera di me, di noi, non dovendo portare costantemente con sé il carico del passato, il peso di tutti i ricordi e degli oggetti amati, né quella dolce dolce nostalgia che ci assale stringendoli al petto.

Il Babau è tornato

Il Babau è tornato

Un giorno di due anni e mezzo fa sei uscita di casa con una sacca: dentro c’era un cambio, un asciugamano e il tuo cagnolino di peluche, il Babau lo chiamavi, da abbracciare per fare la nanna. Mi si stringeva il cuore a saperti per la prima volta lontana da noi, anche se solo per poche ore.

Sono passati tanti giorni da allora e tutti e due siano cresciuti, tu un po’ più grande, io un po’ più vecchio.

E ora, venendoti a prendere al nido per l’ultima volta, ho sentito un po’ di malinconia. Ho pensato che nella tua brave vita questo è il primo ciclo che si conclude, la prima porta sul passato che si chiude per sempre. Stai crescendo in fretta, sei già una bambina grande e io non ho avuto nemmeno il tempo di rendermene conto.

Ti guardo dormire e sento che mi stai sfuggendo, ogni attimo ti porta via, mi lasci indietro, il tuo papà non sa più correre veloce come un bambino.

È la vita che scorre, che fa uno dei suoi scatti, come è giusto che sia.
Il Babau è tornato a casa.

La luna delle femmine

Pubblicato: 19 Maggio 2014 in Il Timido Ubriaco
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Mi sei piaciuta subito. Fin da quando non eri altro che un minuscolo fagiolino, un girino saldamente attaccato alla vita. Secondo le assurde credenze popolari, cui mia madre è devota come una religione, avresti dovuto essere un maschio, perché, in opposizione a qualsiasi logica e a qualsiasi statistica, queste teorie affermano che le femmine vengano concepite e nascano solo con la luna calante. Ma queste fandonie tu le hai volute smentire quasi subito, suscitando il disappunto di tua nonna e forse – chissà – anche instillandole un dubbio. Credimi, l’ho apprezzato.

Eppure alla fine sei riuscita a cogliere di sorpresa anche noi, devoti alla scienza, alla tecnica, ai calcoli ginecologici, a volte altrettanto inutili di quelli astrologici. In barba ai calendari hai deciso che era il momento, che alle tue gambine scatenate non bastava più lo spazio di una pancia, che avevi sete di aria e di vita. E prima ancora che ci potessimo rendere conto di quello che stava succedendo, tu eri lì, tra noi, con il tuo minuscolo viso da alieno e quei tuoi occhi acuti, attenti. Mentre ti cullo tra le mie braccia mi guardi, mi osservi, studiando ogni dettaglio con lo stupore di una scoperta, concentrata nello sforzo di imprimere nella mente il ricordo del viso di tuo padre.

Sei nata senza nessun preavviso, di sera, sbocciata come un fiore di maggio. Non eravamo pronti, ma ti abbiamo amata dal primo momento. E quella notte, uscendo dall’ospedale, ubriaco di emozioni e di adrenalina, ho alzato gli occhi al cielo e l’ho vista: era lì, sopra di me, due settimane prima del previsto e mi sorrideva beffarda, la luna delle femmine.

Due

Pubblicato: 19 febbraio 2013 in Il Timido Ubriaco
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Due. Due anni possono essere un attimo e possono essere una vita. Due anni sembra ieri, ma quello che c’era prima è infinitamente lontano, in un altro universo.

Due anni. Era un sabato pieno di sole, una giornata stupenda, quasi tiepida, insolita in questo mese. Ogni tanto guardavo il sole illuminare il mondo fuori dalla finestra. Sembrava sorridere, il mondo. Anche se lei era lì, anche se il cuore batteva forte sotto il camice verde, anche se la paura, l’ansia, l’odore dell’ospedale s’impossessavano di noi, il mondo sorrideva, lì fuori, placido: sì perché quella era la vita, pulsava attraverso di noi, lo sentivamo, era qualcosa che il linguaggio non sa spiegare, un’emozione ancestrale, primitiva, travolgente.

E poi di colpo eri là, bellissima sin dal primo istante, con gli occhi aperti e curiosi a scrutare quello stranissimo posto. Nel calore delle mie braccia, la prima di infinite volte. In mezzo a noi due a insegnarci cosa significano le parole mamma e papà. Lontana o vicina, incessantemente nei nostri pensieri. E ancora insieme a noi due, smarriti incoscienti eccitati felici felici felici, rapiti nell’estasi di te, sopraffatti da un evento più grande di noi, intenti a capire come possa essere possibile che due più uno faccia ancora due.

Saturno divora i suoi figli nell'inquietante versione dipinta da Goya

Saturno divora i suoi figli nell’inquietante versione dipinta da Goya

Racconta il mito che il dio Crono (Saturno per i Romani), avendo saputo da una profezia che sarebbe stato detronizzato da uno dei suoi figli, pensò bene di mettersi al riparo dal destino in un modo pratico, efficace e per nulla cruento, ovvero divorando i propri figli via via che sua moglie Rea li partoriva. Quest’ultima, però, inspiegabilmente insoddisfatta della situazione, decise di mettergli i bastoni tra le ruote e gli nascose l’ultimo figlio, Zeus, che, una volta divenuto adulto, effettivamente spodestò il padre e lo fece rinchiudere per l’eternità (l’ergastolo è un casino quando sei immortale!). Significativo il fatto che Crono per gli antichi Greci fosse anche la personificazione del Tempo che, guardacaso, finisce per ingoiare tutto ciò che genera.

Un antico mito che parla del Tempo e della paternità. Io personalmente, pur avendo una figlia piccola, ho altri gusti gastronomici, ma devo dire che il Tempo è per me un argomento strettamente correlato all’essere genitore. Con un bambino piccolo c’è sempre una montagna di cose da fare: cene da preparare, pannolini da cambiare, biberon da scaldare, ma soprattutto l’attività principale che consiste nel cercare di arginare l’innata e inconsapevole tendenza all’autodistruzione che si sviluppa in ogni bambino non appena ha la possibilità di muoversi autonomamente.

E fin qui mi riferisco alla normalità, cioè quando le condizioni sono ottimali: il bimbo sta bene, non ci sono dentini che spuntano, mangia regolarmente, dorme un certo numero di ore al giorno e la Luna in trigono con Mercurio determina una congiunzione astrale favorevole. Se invece malauguratamente gli avversi numi perturbano questo precarissimo equilibrio, ci si rende conto di come anche solo un banale mal di gola possa mettere in crisi un’intera famiglia: nottate trascorse a passeggiare per la casa al buio, giornate di sole chiusi in casa in una quarantena forzata, la ricerca affannosa di un medico o almeno di una farmacia aperta (dato che l’apice di ogni malattia si tocca sempre durante i fine settimana). L’effetto collaterale è che il poco, pochissimo tempo che un genitore può dedicare a se stesso in una giornata (a leggere un libro, a guardere la TV o magari a scrivere un post sul proprio blog) viene completamente azzerato per giorni, a volte per settimane intere.

Poi fortunatamente il bimbo guarisce, sta di nuovo bene. Se per caso la Luna nel frattempo è tornata in trigono con Mercurio magari si ha persino la fortuna che nessuno dei due genitori sia stato contagiato dal bacillo (di norma particolarmente virulento) che aveva causato il malessere del bambino. La situazione insomma sembra tornata alla normalità. Ecco, sembra. Perché in realtà nel frattempo la vita è andata avanti di giorni o magari di settimane, lasciandoci indietro, sempre più indietro.

“Chi è che ha ingoiato il mio tempo?” mi domando. E giurerei di sentire un ruttino emergere dalla culla accanto al mio letto. Il figlio che divora il tempo del padre. Oplà. Signori, il mito è ribaltato.