Come ipnotizzato, continuo a navigare con StreetView attraverso le strade della cittadina nella quale sono nato e dove ho trascorso i primi vent’anni della mia vita. Sembra incredibile veder passare sullo schermo del PC quelle vie che ho percorso mille volte, quei palazzi di cui conosco ogni crepa, ogni dettaglio, quei negozi di cui ricordo le vetrine, gli scaffali, il viso del commesso dietro al bancone.
Non ho mai rimpianto di essermene andato, anzi ogni volta che mi guardo indietro sono sempre più convinto di aver fatto la scelta giusta. Ma inevitabilmente quei luoghi, quelle strade, quei muri scrostati conservano un mondo di ricordi: i lunghi e accecanti pomeriggi dell’infanzia, le gelide sere d’inverno passate a chiacchierare in piazza, e poi ancora i giorni della scuola, le strade silenziose, l’odore di umido delle botteghe e quello di legna bruciata dei camini, lo sguardo sul fiume veloce che accarezza dolcemente la città, la mente a sognare luoghi lontani.
No, non rimpiango di essermene andato. Anzi, guardando le immagini scorrere sullo schermo mi rendo conto che questo posto per me è diventato un po’ come un cimitero. Un cimitero non è certo un luogo nel quale puoi vivere, eppure di tanto in tanto senti il bisogno di doverci tornare e magari in alcune circostanze, durante una breve visita, può anche comunicarti un senso di pace, restituirti per qualche istante quella tranquillità che hai perduto, ma più di ogni altra cosa è un monumento alla memoria, un tempio che racchiude i tuoi ricordi, l’immagine sbiadita della tua vita passata.
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”