Mi ha incuriosito un articolo comparso recentemente su Repubblica intitolato I consigli dell’Ocse ai prof “Non bocciate, è dannoso”. Con la capacità di sintesi tipica dei giornalisti, che riescono a ridurre un testo di 160 pagine a uno striminzito slogan sensazionalistico, l’articolo condensa il rapporto dell’OCSE sull’istruzione e lo traduce nell’invito a evitare di bocciare gli studenti, in quanto risulterebbe inutile e addirittura dannoso per gli alunni “in difficoltà”, con una serie di ripercussioni sociali che vanno dal ritardato ingresso dei giovani nel mondo del lavoro fino ai costi aggiuntivi che vengono a gravare sul bilancio di uno Stato (proprio in un periodo di crisi come questo!) a causa degli studenti ripetenti.
Ecco, quando sento questi discorsi mi domando: ma a cosa serve davvero la scuola? E’ solo un posto dove parcheggiare i figli quando i genitori sono al lavoro? Quando ero ancora giovane e ingenuo, traviato da termini come “insegnante” o “insegnamento”, dai voti e dalle pagelle, ero convinto che lo scopo della scuola fosse quello di insegnare, ovvero di trasmettere la conoscenza da una generazione a quella successiva. Figuriamoci: la conoscenza crea disparità sociale e inoltre un sistema di questo tipo implicherebbe che si dovrebbe bocciare un ragazzo magari perché non sa chi sia Carlo Magno o cosa sia il complemento d’agente. Tutto sbagliato. Mi è stato spiegato infatti che la scuola non deve insegnare, ma deve formare: termine piuttosto fumoso che può comprendere tutto e niente ma che nell’accezione comune dovrebbe significare che l’istituzione scolastica deve educare, far maturare i ragazzi, aprirgli la mente proponendogli punti di vista differenti e insomma farli diventare gli uomini e le donne del domani (auspicabilmente migliori di quelli di ieri e di oggi). Questo concetto, molto bello e nobile, oltre che decisamente utopistico, si traduce nel fatto che nelle scuole gli insegnanti continuano a spiegare la propria materia e a interrogare i ragazzi (che altro dovrebbero fare?!?), ma a fine anno, anziché basare il proprio giudizio sulle conoscenze apprese da uno studente, sono costretti a valutare parametri molto meno oggettivi come la disciplina, la costanza ma soprattutto l’importantissimo impegno (da cui deriva una serie di espressioni diventate emblematiche: “ha preso 4 per tutto l’anno, ma si vede che nell’ultimo mese si è impegnato”, “eppure le assicuro che mio figlio si impegna tanto!”, “è intelligente, ma non si impegna”, quest’ultima anche nella variante “non si applica”). Va da sé che con l’impegno non si impara chi sia Carlo Magno, né tantomeno il complemento d’agente, ma si continua allegramente a rilasciare diplomi a gente che a malapena conosce l’italiano. Ma per carità, evitiamo di urtare la loro sensibilità.
Ora poi si fa il salto di qualità: basta con le bocciature, basta (di conseguenza) con i giudizi sugli studenti. Si annienta completamente ogni tipo di premio per chi studia con profitto e ogni tipo di penalizzazione per chi invece non ha mai aperto un libro. In un sistema del genere, quale dovrebbe essere l’incentivo che spingerà i ragazzi a studiare, che eviterà che si appiattiscano nella mediocrità, che li spingerà a eccellere? Il messaggio che stiamo dando alle nuove generazioni è che a loro non è richiesto niente, né impegno né sudore né senso del dovere, che per andare avanti nella vita non è necessario fare nulla, che comunque vadano le cose ci sarà sempre qualcuno pronto a giustificare i loro errori e i loro fallimenti, a sollverli da ogni responsabilità, che non è chi resta indietro che si deve affrettare per recuperare il passo, ma è il mondo intero che deve fermarsi ad aspettarlo. Dovrà pur campare, no? Del resto campare è sempre stata la nostra specialità.