Archivio per luglio, 2011

I libri di scuola

I libri di scuola

Mi ha incuriosito un articolo comparso recentemente su Repubblica intitolato I consigli dell’Ocse ai prof “Non bocciate, è dannoso”. Con la capacità di sintesi tipica dei giornalisti, che riescono a ridurre un testo di 160 pagine a uno striminzito slogan sensazionalistico, l’articolo condensa il rapporto dell’OCSE sull’istruzione e lo traduce nell’invito a evitare di bocciare gli studenti, in quanto risulterebbe inutile e addirittura dannoso per gli alunni “in difficoltà”, con una serie di ripercussioni sociali che vanno dal ritardato ingresso dei giovani nel mondo del lavoro fino ai costi aggiuntivi che vengono a gravare sul bilancio di uno Stato (proprio in un periodo di crisi come questo!) a causa degli studenti ripetenti.

Ecco, quando sento questi discorsi mi domando: ma a cosa serve davvero la scuola? E’ solo un posto dove parcheggiare i figli quando i genitori sono al lavoro? Quando ero ancora giovane e ingenuo, traviato da termini come “insegnante” o “insegnamento”, dai voti e dalle pagelle, ero convinto che lo scopo della scuola fosse quello di insegnare, ovvero di trasmettere la conoscenza da una generazione a quella successiva. Figuriamoci: la conoscenza crea disparità sociale e inoltre un sistema di questo tipo implicherebbe che si dovrebbe bocciare un ragazzo magari perché non sa chi sia Carlo Magno o cosa sia il complemento d’agente. Tutto sbagliato. Mi è stato spiegato infatti che la scuola non deve insegnare, ma deve formare: termine piuttosto fumoso che può comprendere tutto e niente ma che nell’accezione comune dovrebbe significare che l’istituzione scolastica deve educare, far maturare i ragazzi, aprirgli la mente proponendogli punti di vista differenti e insomma farli diventare gli uomini e le donne del domani (auspicabilmente migliori di quelli di ieri e di oggi). Questo concetto, molto bello e nobile, oltre che decisamente utopistico, si traduce nel fatto che nelle scuole gli insegnanti continuano a spiegare la propria materia e a interrogare i ragazzi (che altro dovrebbero fare?!?), ma a fine anno, anziché basare il proprio giudizio sulle conoscenze apprese da uno studente, sono costretti a valutare parametri molto meno oggettivi come la disciplina, la costanza ma soprattutto l’importantissimo impegno (da cui deriva una serie di espressioni diventate emblematiche: “ha preso 4 per tutto l’anno, ma si vede che nell’ultimo mese si è impegnato”, “eppure le assicuro che mio figlio si impegna tanto!”, “è intelligente, ma non si impegna”, quest’ultima anche nella variante “non si applica”). Va da sé che con l’impegno non si impara chi sia Carlo Magno, né tantomeno il complemento d’agente, ma si continua allegramente a rilasciare diplomi a gente che a malapena conosce l’italiano. Ma per carità, evitiamo di urtare la loro sensibilità.

Ora poi si fa il salto di qualità: basta con le bocciature, basta (di conseguenza) con i giudizi sugli studenti. Si annienta completamente ogni tipo di premio per chi studia con profitto e ogni tipo di penalizzazione per chi invece non ha mai aperto un libro. In un sistema del genere, quale dovrebbe essere l’incentivo che spingerà i ragazzi a studiare, che eviterà che si appiattiscano nella mediocrità, che li spingerà a eccellere? Il messaggio che stiamo dando alle nuove generazioni è che a loro non è richiesto niente, né impegno né sudore né senso del dovere, che per andare avanti nella vita non è necessario fare nulla, che comunque vadano le cose ci sarà sempre qualcuno pronto a giustificare i loro errori e i loro fallimenti, a sollverli da ogni responsabilità, che non è chi resta indietro che si deve affrettare per recuperare il passo, ma è il mondo intero che deve fermarsi ad aspettarlo. Dovrà pur campare, no? Del resto campare è sempre stata la nostra specialità.

Lezioni di piano

Pubblicato: 14 luglio 2011 in Il Timido Ubriaco
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Lezioni di piano

Lezioni di piano

Leggendo il post di un’amica che racconta la sua esperienza nel mondo della danza classica, mi sono tornate in mente, per analogia, le lezioni di piano che prendevo quando ero ragazzo. Mia madre mi aveva proposto di cominciare a suonare, forse per ammortizzare il costo dello strumento che era stato acquistato per mio fratello. Dovevo avere più o meno 9 anni ed ero affascinato dalla melodia di “Per Elisa” che mio fratello riusciva magicamente a far uscire da quel grande cassone nero di legno. Pensavo che un giorno sarei stato in grado di suonarla anch’io. Devo ammettere poi che ero emozionato all’idea di scoprire cosa succedeva davvero nella nostra sala quando veniva il maestro e si chiudeva con mio fratello nella stanza, mentre io, dall’esterno, riuscivo a malapena a sentire le loro voci, coperte dal suono del pianoforte, e a intuire i movimenti attraverso il vetro smerigliato della porta.

Ovviamente in quel momento non mi rendevo affatto conto che il mio timido assenso avrebbe implicato anni di studio del solfeggio, un’infinità di noiosissime scale ascendenti e discendenti, e naturalmente esercizi su esercizi che avrei sempre portato avanti svogliatamente, senza troppa passione. Se ripenso a quei libri che prendevano la polvere sul leggio del pianoforte, a quei pezzi studiati frettolosamente nei 10 minuti prima della lezione ho la netta sensazione di aver sprecato un’opportunità. Mi sembra incredibile pensare che c’era un tempo in cui tutto ciò che dovevo fare era studiare: musica, storia, letteratura, matematica, fisica. Ma naturalmente a quell’età ogni cosa era più interessante dei libri scolastici e del pentagramma, così non facevo che il minimo indispensabile (che, devo ammetterlo, era veramente poco: in effetti non ricordo di aver mai avuto bisogno di studiare granché prima dell’Università).

E invece una volta diventato adulto, adesso che, tra lavoro, casa e famiglia, è difficile persino riuscirsi a ritagliare il tempo di leggere un romanzo, ora mi piacerebbe poter avere il tempo e l’occasione di studiare, colmare le mie lacune, imparare cose nuove, avere l’opportunità di suonare ancora il piano. Ma ora è impossibile. Peccato. L’attimo è fuggito.

Ho studiato pianoforte per 6 anni e durante tutto questo tempo non ho mai suonato “Per Elisa”. Solo molti anni dopo, da solo, un giorno ho preso in mano lo spartito e ho cominciato a studiare, a studiare, a studiare, quello e altri brani che mi piacevano, solo per il mio piacere, con una passione e una tenacia mai avute prima. Ma è stata una breve primavera: ero già all’Università, il tempo ormai correva veloce, trascinando con sé i ricordi delle vecchie lezioni, la tecnica così faticosamente appresa e l’agilità delle dita.
Decisamente, la vita è strutturata male.

Google StreetView

Google StreetView

Come ipnotizzato, continuo a navigare con StreetView attraverso le strade della cittadina nella quale sono nato e dove ho trascorso i primi vent’anni della mia vita. Sembra incredibile veder passare sullo schermo del PC quelle vie che ho percorso mille volte, quei palazzi di cui conosco ogni crepa, ogni dettaglio, quei negozi di cui ricordo le vetrine, gli scaffali, il viso del commesso dietro al bancone.

Non ho mai rimpianto di essermene andato, anzi ogni volta che mi guardo indietro sono sempre più convinto di aver fatto la scelta giusta. Ma inevitabilmente quei luoghi, quelle strade, quei muri scrostati conservano un mondo di ricordi: i lunghi e accecanti pomeriggi dell’infanzia, le gelide sere d’inverno passate a chiacchierare in piazza, e poi ancora i giorni della scuola, le strade silenziose, l’odore di umido delle botteghe e quello di legna bruciata dei camini, lo sguardo sul fiume veloce che accarezza dolcemente la città, la mente a sognare luoghi lontani.

No, non rimpiango di essermene andato. Anzi, guardando le immagini scorrere sullo schermo mi rendo conto che questo posto per me è diventato un po’ come un cimitero. Un cimitero non è certo un luogo nel quale puoi vivere, eppure di tanto in tanto senti il bisogno di doverci tornare e magari in alcune circostanze, durante una breve visita, può anche comunicarti un senso di pace, restituirti per qualche istante quella tranquillità che hai perduto, ma più di ogni altra cosa è un monumento alla memoria, un tempio che racchiude i tuoi ricordi, l’immagine sbiadita della tua vita passata.

“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”

(Cesare Pavese, La luna e i falò)