Archivio per la categoria ‘Il Timido Ubriaco’

Ringo Starr

Pubblicato: 7 aprile 2020 in Il Timido Ubriaco
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Esco di casa per la spesa settimanale, in fila davanti al supermercato con la mia bandana sul viso (eh no, non ho una mascherina), mentre intorno a me riluce un’altra giornata splendida che non abbiamo potuto goderci, mentre il caldo sole di aprile illumina dei volti pallidi, tristi, alieni, incattiviti, privi di vita.

Impiego più di due ore per fare la spesa e mettere in macchina il mio carico di ghiande per un’altra settimana di isolamento. Poi accendo il motore ed esco di nuovo alla luce, fuori c’è ancora il sole che pigramente si avvia verso occidente, dal finestrino abbassato entra l’aria tiepida di una primavera precoce, la radio canta quella canzone stupida e divertente dei Pinguini Tattici Nucleari.

E per un momento, per un breve momento, ho voglia di sorridere di nuovo, di sentirmi leggero, felice di questo minuscolo squarcio di normalità, di avere ancora il sole e il vento sulla mia pelle, nelle narici il profumo dell’aria di aprile, il cielo azzurro sopra di me e davanti ancora la strada.

Mi vengono alla mente quegli incendi terribili, che sembrano non potersi spegnere mai, che crescono seminando morte e distruzione ovunque arrivino, che lasciano miseri monconi riarsi in un panorama desolato di carbone e cenere. Ma arriva il giorno in cui da uno di quei monconi solitari inaspettatamente si vede spuntare una minuscola gemma che preme per venire alla luce, piccolissima ma brillante e sfacciata nel suo verde sgargiante.

Non so se quella piccola gemma ce la farà, se riuscirà a sopravvivere o sarà soffocata da quell’ambiente avvelenato e ostile. Ma non importa. Per questa sera mi basta sapere che è lì, per questa sera mi piace solo guardare ancora una volta alla vita, alla luce, respirare profondamente il tramonto e pensare, nonostante tutto, contro ogni logica, che andrà tutto bene.

“Sarebbe bello che almeno una volta, almeno ogni tanto, in questo dannatissimo mondo, qualcuno che cerca qualcosa avesse in sorte di trovarla, così semplicemente, e dicesse l’ho trovata, con un lievissimo sorriso, l’avevo persa e l’ho trovata – sarebbe poi un niente la felicità.”

(Alessandro Baricco)

 

Non ho mai avuto fiducia nell’umanità. Ho sempre pensato che ogni azione umana sia sempre spinta da qualche tipo di tornaconto personale. E che gli uomini siano per loro natura gretti, meschini ed egoisti.

Devo ammettere che questo schema mentale nella vita mi ha risparmiato molte delusioni: alla fine le persone si comportavano sempre nel modo che mi sarei aspettato da loro. E probabilmente anche io mi sono sempre comportato allo stesso modo verso le persone che avevo intorno.

Ci siamo abituati, è la natura umana, non ci facciamo nemmeno più caso. Anzi con il tempo abbiamo imparato a mascherare i nostri artigli affilati dietro una stretta di mano, a nascondere il nostro digrignare di denti dietro un sorriso tirato. Siamo diventati più educati (è già qualcosa), ma nella sostanza siamo sempre lupi famelici gli uni verso gli altri.

Ma poi oggi mi è successa questa cosa. Una storia degna di Gramellini, lo so. Io non lo sopporto Gramellini, però mi è successa. Ho perso il portafoglio mentre tornavo a casa. Sono tornato a cercarlo lungo la strada che avevo percorso, ma invano. Avevo dentro tutti i miei documenti, oltre a due bancomat, il badge per entrare al lavoro e varie altre carte più o meno importanti. Depresso, incattivito, innervosito ho passato il resto del pomeriggio a inveire contro me stesso e a seguire le classiche procedure per bloccare tutti gli accessi.

Poi dopo cena ha suonato il citofono. Chi può essere a quest’ora? Non ci pensavo neppure lontanamente. E invece era proprio così: una signora aveva trovato il mio portafoglio, l’aveva raccolto e poi, leggendo l’indirizzo dai miei documenti, era venuto a portarmelo a casa, non appena aveva finito di lavorare.

Intonso. C’erano persino i soldi che avevo quando mi era scivolato dalla tasca.

Avrei voluto ricompensarla in qualche modo per la sua onestà, per essersi presa addirittura la briga di venire fino a casa mia a riportarmelo: ho provato a offrirle del denaro, a chiederle in quale modo avrei potuto sdebitarmi, ma ha rifiutato con decisione. Ha solo detto che è quello che avrebbe voluto le succedesse se fosse capitato a lei di perdere il portafoglio. Ed è andata via.

Io sono rimasto di sasso. Contento di riavere le mie cose, contento soprattutto di non dover rifare tutti i documenti. Ma anche un po’ frastornato, stupito, confuso. Questa gentile signora ha rotto i miei schemi mentali, ha fatto qualcosa che non mi sarei aspettato. Con un piccolo gesto mi ha commosso. E mi ha lasciato lì, con gli occhi di un bambino, il portafoglio stretto in mano e un sorriso ebete sulle labbra.

Una scatola piena di ricordi

Una scatola piena di ricordi

“Arrivano! Chiudi la scatola, presto!”. Mia moglie si affretta a richiudere il contenitore pieno di vecchi giocattoli e peluches, ma non abbastanza velocemente: le bambine sono già lì e incuriosite cominciano a frugarci dentro.

E mentre loro scavano tra i ricordi, mi viene da pensare a me, che sin da bambino ho sempre avuto la propensione a conservare gli oggetti, soprattutto se legati a un momento speciale: conservavo i biglietti dei musei, le tessere dei mezzi di trasporto adoperate durante i viaggi, le diapositive venute troppo scure, e poi le scatole, scatole di tutti i tipi, contenitori di ogni forma e materiale.

Penso che questa inclinazione mi sia stata trasmessa dai miei genitori, a loro volta eredi di una lunga catena di generazioni vissute in epoche di ristrettezze ben maggiori, nelle quali ogni oggetto aveva un proprio, importante valore: per questo si cercava sempre di conservare ogni cosa, perché forse un giorno sarebbe tornata ancora utile.

Invece nel nostro luminoso secolo dell’abbondanza, del trionfo dell’usa-e-getta, nel quale abbiamo un nome per ogni umana debolezza, questa propensione è diventata una patologia chiamata disposofobia, la paura di buttare via le cose. Nei casi più gravi può portare chi ne soffre a riempire di oggetti inutili tutti gli spazi disponibili della propria casa, rendendola di fatto inabitabile.

Nel mio caso, fortunatamente, la pur lieve propensione che avevo si è scontrata con le contingenze di abitazioni che non lasciavano spazio nemmeno al necessario, figuriamoci al superfluo. Mi è rimasta, tuttavia, una certa tendenza ad affezionarmi agli oggetti e ancora oggi faccio sempre un po’ di fatica a buttare via qualcosa. Per questo quando ho visto le mie figlie avvicinarsi allo scatolone pieno dei loro vecchi giocattoli ho pensato: chissà, forse ho trasmesso loro il mio attaccamento alle cose, la mia difficoltà a disfarmene.

Le bambine si avvicinano, prendono in mano qualche gioco, accarezzano uno o due peluches, tirano fuori tutto, ma in pochissimo tempo si stufano, abbandonano il contenitore sventrato e tornano nella loro stanza a giocare, serene, voltando le spalle al loro breve passato.

Io e mia moglie invece rimaniamo lì, con cura rimettiamo tutti gli oggetti nella scatola, guardandoli uno ad uno con affetto. Ti ricordi quanto le piaceva l’elefantino? E come stringeva la Pippi? Quanto avranno giocato tutte e due con questo gioco? Non si stancavano mai! E il Babau!!…
Alla fine quasi di soppiatto sottraiamo un paio di peluches, quelli più carichi di ricordi, e li ficchiamo su una mensola in alto in alto, al sicuro, lontani dai nostri stessi sguardi. Poi chiudiamo velocemente la scatola, per non vedere più.

A quanto pare alla fine la disposofobia non sembra una patologia ereditaria e la prossima generazione – fortunata! – ne sarà immune; sarà più leggera di me, di noi, non dovendo portare costantemente con sé il carico del passato, il peso di tutti i ricordi e degli oggetti amati, né quella dolce dolce nostalgia che ci assale stringendoli al petto.

“C’è qualcosa nella fine dell’estate non so bene che cos’è / E non riesco a respirare”
(Baustelle, Il Vangelo di Giovanni)

 

Il doodle dedicato al primo giorno d'autunno

Il doodle dedicato al primo giorno d’autunno

Anche senza l’immancabile doodle non avremmo potuto dimenticare che oggi è il primo giorno d’autunno. Ce lo avrebbe ricordato l’aria leggera, cristallina, l’arancione del sole che scende troppo presto, i suoi raggi netti, precisi, che ci attraversano come frecce cariche di malinconia. Ce lo avrebbe detto quella sensazione di qualcosa che si conclude, di un altro anno che è passato, il ricordo consolante e spaventoso della nostra mancata immortalità.

Alle spalle ci restano i ricordi dell’estate: la sua luce e il suo calore ci avvolgono ancora mentre il crepuscolo intorno ci annuncia la nuova stagione, con i suoi cambiamenti, le sue incognite, le sue speranze e la remota promessa di una primavera ancora lontana.

E allora stasera, per combattere questo senso della fine, ho voluto far rinascere il blog così a lungo rimasto silenzioso, per ricordarmi che ogni epilogo racchiude in sé un nuovo inizio, che la vita è in continua trasformazione e che, nonostante tutto, sono ancora qui, ancora una volta a guardare l’orizzonte, con il cuore trepidante ad aspettare l’alba di domani.

 

Il Babau è tornato

Il Babau è tornato

Un giorno di due anni e mezzo fa sei uscita di casa con una sacca: dentro c’era un cambio, un asciugamano e il tuo cagnolino di peluche, il Babau lo chiamavi, da abbracciare per fare la nanna. Mi si stringeva il cuore a saperti per la prima volta lontana da noi, anche se solo per poche ore.

Sono passati tanti giorni da allora e tutti e due siano cresciuti, tu un po’ più grande, io un po’ più vecchio.

E ora, venendoti a prendere al nido per l’ultima volta, ho sentito un po’ di malinconia. Ho pensato che nella tua brave vita questo è il primo ciclo che si conclude, la prima porta sul passato che si chiude per sempre. Stai crescendo in fretta, sei già una bambina grande e io non ho avuto nemmeno il tempo di rendermene conto.

Ti guardo dormire e sento che mi stai sfuggendo, ogni attimo ti porta via, mi lasci indietro, il tuo papà non sa più correre veloce come un bambino.

È la vita che scorre, che fa uno dei suoi scatti, come è giusto che sia.
Il Babau è tornato a casa.

La luna delle femmine

Pubblicato: 19 Maggio 2014 in Il Timido Ubriaco
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Mi sei piaciuta subito. Fin da quando non eri altro che un minuscolo fagiolino, un girino saldamente attaccato alla vita. Secondo le assurde credenze popolari, cui mia madre è devota come una religione, avresti dovuto essere un maschio, perché, in opposizione a qualsiasi logica e a qualsiasi statistica, queste teorie affermano che le femmine vengano concepite e nascano solo con la luna calante. Ma queste fandonie tu le hai volute smentire quasi subito, suscitando il disappunto di tua nonna e forse – chissà – anche instillandole un dubbio. Credimi, l’ho apprezzato.

Eppure alla fine sei riuscita a cogliere di sorpresa anche noi, devoti alla scienza, alla tecnica, ai calcoli ginecologici, a volte altrettanto inutili di quelli astrologici. In barba ai calendari hai deciso che era il momento, che alle tue gambine scatenate non bastava più lo spazio di una pancia, che avevi sete di aria e di vita. E prima ancora che ci potessimo rendere conto di quello che stava succedendo, tu eri lì, tra noi, con il tuo minuscolo viso da alieno e quei tuoi occhi acuti, attenti. Mentre ti cullo tra le mie braccia mi guardi, mi osservi, studiando ogni dettaglio con lo stupore di una scoperta, concentrata nello sforzo di imprimere nella mente il ricordo del viso di tuo padre.

Sei nata senza nessun preavviso, di sera, sbocciata come un fiore di maggio. Non eravamo pronti, ma ti abbiamo amata dal primo momento. E quella notte, uscendo dall’ospedale, ubriaco di emozioni e di adrenalina, ho alzato gli occhi al cielo e l’ho vista: era lì, sopra di me, due settimane prima del previsto e mi sorrideva beffarda, la luna delle femmine.

Scaglie colorate

Scaglie colorate

Nel più antico dei calendari romani il nuovo anno cominciava nel mese di marzo, ovvero con l’inizio della primavera. Da allora, l’idea che la primavera scandisca il passaggio del tempo ha attraversato indenne i millenni e tre riforme del calendario (il 1° gennaio è stato definitivamente imposto come inizio ufficiale del nuovo anno solo all’alba del XVIII secolo), al punto che ancora oggi la parola “primavere” si usa per indicare l’età di una persona.

E così, alla soglia delle mie trentasei primavere, finalmente riesco a trovare il tempo di tornare al mio blog, abbandonato da mesi. Scorro la cronologia e mi accorgo che dodici mesi fa è successa la stessa cosa: a quanto pare il mio blog muore all’inizio di ogni primavera e risorge inspiegabilmente prima dell’estate.

Sarà che la bella stagione mi tiene lontano dal computer, mi spinge a uscire, a trascorrere il tempo fuori casa, ed è un po’ come se volessi recuperare le occasioni perdute durante l’inverno, sono pieno di idee, di voglia di fare, di posti dove andare, come al risveglio dopo un lungo letargo.

Purtroppo però, come sempre, ci sono mille altri impegni e pensieri molto più prosaici a cui badare: la dichiarazione dei redditi, il condominio, il bollo e l’assicurazione dell’auto, eccetera eccetera eccetera. E poi naturalmente ci sono gli imprevisti. Sì, perché gli imprevisti ci sono sempre, al punto che ormai non si possono nemmeno più definire imprevisti: la coda dell’inverno lascia sempre nell’aria qualche virus particolarmente aggressivo, che immancabilmente trova un’ospite accogliente nel corpo di mia figlia. Ma non solo nel suo. Lei almeno ha la scusa del sistema immunitario ancora acerbo, ma non passa una primavera senza che io stesso contragga qualche tipo di malattia, un fortissimo raffreddore, un mal di gola o altro ancora. E’ come se il mio corpo si abbandonasse, solo per un momento, stanco, sfinito. Come se si lasciasse andare in balia delle malattie, dell’ambiente, dei malesseri fisici e psichici. Ed è come se da questa devastazione uscissi ripulito, rinnovato, pronto ad affrontare altri dodici mesi, rinato, come un serpente che abbandona la vecchia pelle e sfodera le sue nuove, scintillanti scaglie colorate.

La primavera è arrivata. Mi sento un pochino più vecchio. Cammino per la strada, il sole di maggio mi coccola nel suo caldo abbraccio. Le nuvole si allontanano all’orizzonte. Chiudo gli occhi, inspiro l’aria carica di profumi. E sorrido.

Due

Pubblicato: 19 febbraio 2013 in Il Timido Ubriaco
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Due. Due anni possono essere un attimo e possono essere una vita. Due anni sembra ieri, ma quello che c’era prima è infinitamente lontano, in un altro universo.

Due anni. Era un sabato pieno di sole, una giornata stupenda, quasi tiepida, insolita in questo mese. Ogni tanto guardavo il sole illuminare il mondo fuori dalla finestra. Sembrava sorridere, il mondo. Anche se lei era lì, anche se il cuore batteva forte sotto il camice verde, anche se la paura, l’ansia, l’odore dell’ospedale s’impossessavano di noi, il mondo sorrideva, lì fuori, placido: sì perché quella era la vita, pulsava attraverso di noi, lo sentivamo, era qualcosa che il linguaggio non sa spiegare, un’emozione ancestrale, primitiva, travolgente.

E poi di colpo eri là, bellissima sin dal primo istante, con gli occhi aperti e curiosi a scrutare quello stranissimo posto. Nel calore delle mie braccia, la prima di infinite volte. In mezzo a noi due a insegnarci cosa significano le parole mamma e papà. Lontana o vicina, incessantemente nei nostri pensieri. E ancora insieme a noi due, smarriti incoscienti eccitati felici felici felici, rapiti nell’estasi di te, sopraffatti da un evento più grande di noi, intenti a capire come possa essere possibile che due più uno faccia ancora due.

Che coss’è l’amor, Vinicio Capossela

Per una serie di curiose circostanze, una domanda affine a quella che dà il titolo a una famosa canzone di Vinicio Capossela è risuonata oggi nel mio ufficio: a cosa serve l’amore?

“L’amore è un meccanismo evolutivo che ha lo scopo di preservare la specie umana” è stata la lapidaria risposta di un collega.

Tutto qui? Fare figli? E’ davvero così semplice la risposta a una delle domande che l’umanità si pone da migliaia di anni? Questa è la spiegazione del sentimento più complesso e più irrazionale che esista? Questa è la motivazione che ci ha ispirato a comporre musica, poesie, drammi, che ci ha spinto a commettere omicidi e atti eroici, che ci ha fatto piangere, ridere e sognare?

In questo triste secolo dominato dal razionalismo, lo scienziato è convinto di poter comprendere ogni cosa, di poter sezionare con i suoi affilatissimi bisturi anche i nostri sentimenti, di poter guardare con i suoi potentissimi microscopi fin nel profondo del nostro cuore, di poter stimare con i suoi precisissimi strumenti persino il peso della nostra anima, riducendo l’intero universo a un freddo e squallido meccanismo privo di uno scopo.

Probabilmente è vero, il mio collega ha ragione. Ma io voglio credere lo stesso che ci sia anche qualcos’altro, che ognuno di noi nasconda ancora dentro di sé una scintilla divina rubata agli dèi, che ci siano cose che ci sfuggono e che non saremo mai in grado di capire, che la forza che ci unisce non sia solamente il frutto di una reazione chimica. Forse questo mi rende più ingenuo, più infantile, ma non importa. Oggi voglio essere un po’ meno scienziato e un po’ più poeta.

«”Illusioni!” grida il filosofo. Or non è tutto illusione? tutto! Beati gli antichi che si credeano degni de’ baci delle immortali dive del cielo; che sacrificavano alla Bellezza e alle Grazie; che diffondeano lo splendore della divinità su le imperfezioni dell’uomo, e che trovavano il bello ed il vero accarezzando gli idoli della lor fantasia! Illusioni! ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore, o (che mi spaventa ancor più) nella rigida e noiosa indolenza: e se questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani, e lo caccerò come un servo infedele.»

(Ugo Foscolo, Le Ultime Lettere di Jacopo Ortis)

La vita scende goccia a goccia da una flebo

La vita scende goccia a goccia da una flebo

Il cardinale ha rifiutato ogni forma di accanimento terapeutico. È bastata questa breve frase pronunciata dal primario della clinica dove si è spento il cardinale Martini a riportare sulle prime pagine dei giornali i temi etici sul fine vita, accanto ai nomi di Eluana Englaro e Piergiorgio Welby. A dire il vero, il cardinale Martini si era più volte espresso pubblicamente sull’argomento, mostrando – se non un’apertura – quantomeno una sorta di tolleranza, di comprensione verso il percorso di sofferenza che porta a scelte così estreme. Ma è ovvio che egli rappresenta anche uno dei vertici dell’ortodossia cattolica, che ha invece sempre condannato duramente qualsiasi azione volontaria che si opponga alla prosecuzione della vita.

Tutto il mondo cattolico si è affrettato a specificare che no, non è affatto la stessa cosa, scendendo nei tristi e pietosi dettagli della morte, analizzando senza alcun pudore le differenze tecniche tra il sondino rifiutato da Martini e quello che teneva in vita Eluana Englaro. Ma diciamoci la verità: queste tecnicissime spiegazioni, queste sottilissime argomentazioni non ci hanno affatto convinto. Alla fine il nostro istinto animale – che pure tende all’autoconservazione anche nelle situazioni più estreme – ci dice che la morte, come la vita, può essere una scelta consapevole, che ognuno di noi è responsabile e custode della propria esistenza e che la vita biologica in sé non ha alcun valore quando vengono a mancare la dignità, la speranza nel futuro, la possibilità di sentirsi parte del mondo, la volontà di continuare.

Eppure la Chiesa condanna ancora ciecamente ogni forma di rifiuto della vita, trincerandosi dietro motivazioni medievali. Proprio quella Chiesa che ha tentato in ogni modo di impedire che a Eluana venisse concessa una fine pietosa, che ha costretto i medici a lasciarla morire d’inedia perché somministrarle una sostanza per porre fine alla sua agonia sarebbe stato inumano (sic!), che ha cercato fino all’ultimo (fortunatamente – per una volta – invano) di manovrare i nostri politici per far approvare una legge che costringesse Eluana a vivere la sua non-vita, ancora e ancora. Ma la scelta del cardinale Martini è stata diversa. E’ stata una scelta consapevole ed eticamente accettabile. Per via della differenza del sondino, della diversa situazione, dell’inevitabile progressione della malattia, eccetera eccetera.

A quanto pare, c’è una sottile linea rossa che separa l’eutanasia dall’opposizione all’accanimento terapeutico. E c’è una sottile linea porpora che separa le ultime volontà di un alto prelato da quelle di una persona comune.