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La home page del Corriere della Sera

La home page del Corriere della Sera

Oggi mio malgrado sono venuto a conoscenza della morte della compianta orsa Daniza. Non avrei comunque potuto ignorarlo, visto che la mia homepage di Facebook era completamente infestata dai necrologi, mentre le due principali testate nazionali, il Corriere e la Repubblica, riportavano la notizia in primo piano (come peraltro hanno fatto quasi tutti i telegiornali della sera).

Giuro, mi piacciono gli animali. Beh insomma gli insetti mi fanno un po’ schifo, lo ammetto, ma tutti gli altri animali mi piacciono: adoro i gatti, accarezzo i cani e una volta ho fatto addirittura un’offerta per i poveri cuccioli abbandonati. Da piccolo anch’io, come tutti, avevo un pelouche a forma di orso cui ero molto affezionato e mi piaceva guardare l’orso Yoghi in televisione; anzi, ora che ci penso, quando ero un bambino e ancora non mi rendevo conto del valore del mio tempo ho persino visto il noiosissimo film “L’orso” di Jean-Jacques Annaud.

Ecco, però, a costo di inimicarmi l’intera comunità animalista, una cosa la devo dire, non ce la faccio a trattenermi: ma non si starà un po’ esagerando? Sono settimane che vedo sui social network e sui giornali questi appelli per Daniza, tutti contraddistinti dall’hashtag #iostocondaniza. Naturalmente, come sempre mi capita quando vedo così tante persone ripetere la stessa cosa, provo immediatamente un senso di repulsione e cerco di tenermene alla larga. Quando poi, come in questo caso, il messaggio è veicolato da un hashtag la mia irritazione sale: mi infastidisce l’hashtag, questo brutto e sgrammaticato slogan che chiunque voglia parlare di un certo argomento deve apporre al proprio pensiero come una firma apocrifa, mi disturba l’idea che tutti si uniformino a una frase formulata da qualcun altro come tante pecore nel gregge.

Quindi lo confesso: quando mio malgrado capitavo di fronte a un tweet, una foto, un articolo, un post contrassegnato da #iostocondaniza ho sempre cercato di ignorarlo. Ma la mobilitazione sui media e sui social network era tale che a un certo punto mi sono domandato chi fosse questa Daniza che riusciva ad attirare tanta attenzione sulle sue – evidentemente – sfortunate vicende. Ingenuamente avevo dato per scontato che si trattasse di una donna ed ero abbastanza sicuro che fosse una questione di diritti umani negati, forse nel mio subconscio avevo addirittura assimilato il suo nome a quello di Meriam, la giovane sudanese condannata a morte per aver rinnegato l’Islam.

Poi oggi i numerosi post su Facebook mi hanno svelato la verità. Inizialmente, guardando disegni e foto di orsi, lo giuro, non riuscivo a capire cosa ci potessero entrare con i diritti umani, l’integralismo islamico e la condizione femminile. Così sono andato a leggere gli articoli.

Un’orsa.

No, non mi capacito. Per carità, l’orso è un animale maestoso, una specie protetta, aveva anche i cuccioli, la scena della morte della mamma di Bambi è scolpita indelebilmente nella memoria di ognuno di noi. Ma tutti i media, i social network, i personaggi dello spettacolo e i politici stanno davvero, no dico DAVVERO, parlando della morte di un’orsa?!?

Non credo sia qualunquista confrontare la notizia di Daniza con quelle che la circondano sulla home page del Corriere: Putin afferma che è di nuovo a rischio la pace in Ucraina se si va avanti con le sanzioni, Draghi ricorda che la situazione economica in Europa è stagnante, braccio di ferro tra Russia e USA su un possibile intervento in Siria contro gli estremisti islamici dell’ISIS, rabbia al funerale del ragazzo di 17 anni ucciso a Napoli da un carabiniere. E potrei continuare scorrendo la pagina per leggere le notizie via via meno rilevanti. Ma in cima a tutto troneggia lei, l’orsa Daniza.

Non posso esimermi a questo punto dal citare alcuni estratti dall’articolo di testa: eviterò ogni commento, non ce n’è bisogno.

Il Corpo Forestale annuncia l’apertura di un’inchiesta. Il Ministro dell’Ambiente spiega: “Abbiamo già inviato alla Provincia di Trento la richiesta di una relazione”. Nasce l’hashtag #giustiziaperdaniza. Dell’episodio sono stati informati il Ministero dell’Ambiente, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale e l’Autorità Giudiziaria. Per Daniza l’autopsia è prevista già in giornata. Non mancano le prese di posizioni ufficiali e politiche. Ciò che è accaduto all’orsa Daniza è un animalicidio (sic!) in piena regola.

E si potrebbe continuare a lungo, ma preferisco fermarmi qui.

A me dispiace molto per la sorte di quest’orsa sfortunata, ma personalmente mi sento molto più coinvolto negli infiniti drammi e nelle vicende di animali che appartengono alla mia stessa specie, drammi che sono ogni giorno sotto i nostri occhi ma per i quali purtroppo non si riesce mai a trovare un hashtag abbastanza convincente né uno slogan altrettanto commovente e virale.

Porte solitarie senza più gol

Porte solitarie senza più gol

Qualsiasi ragazzo cresciuto in Italia lo sa benissimo. Il calcio è una cosa importante. Una passione. Una religione. Qualcosa di imprescindibile.

Cominci sin da piccolo giocando con le figurine Panini, quando volente o nolente devi professare l’appartenenza a una qualche tifoseria, dato che gli altri bambini ti chiedono “Di che squadra sei?” ancor prima di domandarti “Come ti chiami?”. Prosegui poi durante l’adolescenza, quando la metà delle conversazioni dei tuoi coetanei ha come oggetto il calcio (l’argomento principale dell’altra metà delle conversazioni è facilmente intuibile). Ma quando raggiungi l’età adulta puoi finalmente fare coming out e rispondere “Guarda, a me il calcio non interessa” ogniqualvolta qualcuno ti chiede “Di che squadra sei?” (sì, come il lettore più arguto potrà dedurre, non c’è una grossa evoluzione nelle conversazioni maschili dall’infanzia in poi). Tendenzialmente, di fronte a una risposta di questo genere, le persone ti guardano con un misto di incredulità e compassione, ma, superato lo shock iniziale, di solito continuano a considerarti parte del grande e variegato universo del genere umano. Ottimo. Pensi che alla fine tu e il calcio avete trovato il modo di convivere pacificamente.

Poi una sera accendi la televisione e il telegiornale ti informa che una certa squadra ha battuto un’altra squadra. Normalmente è difficile che tu apprenda queste informazioni dalla televisione, visto che cambi canale prima della pagina sportiva. In questo caso però non puoi farlo perché si tratta del servizio di apertura del telegionale. Il servizio di apertura. La notizia più importante della giornata. Un reportage che mostra l’esultanza dei tifosi. Capisco. Okay, vediamo questo servizio. Gente che urla e sventola bandiere. Poi fermano alcuni tifosi per avere le reazioni a caldo. Ne mostrano quattro. Ben due di questi, cioè la metà del campione, affermano che questo è il giorno più bello della loro vita. Il giorno più bello della loro vita perché la loro squadra del cuore ha vinto una partita. No, riflettiamoci.

Il giorno più bello della loro vita.

Evidentemente hanno avuto una vita molto triste. Accanto a uno di questi due c’è un piccolo bambino esultante, anche lui vestito dei colori della squadra del cuore (del padre). Non appare nemmeno turbato dal fatto che suo padre abbia appena pubblicamente dichiarato che il giorno più felice della sua vita non è quello in cui è nato lui o quello in cui ha pronunciato per la prima volta la parola “papà”, ma il giorno più felice della sua vita è proprio questo, oggi, perché la sua squadra ha vinto una partita a pallone.

Ma sì, sì, lo so. Sono cose che si dicono, iperbole. Speriamo. Certo che poi non ti stupisci più quando scopri che il quotidiano di gran lunga più letto in Italia è la Gazzetta dello Sport, che ha una tiratura enormemente superiore a quella de La Repubblica o Il Corriere della Sera. Panem et circenses, l’avevano scoperto già duemila anni fa, niente di nuovo sotto il sole.

Fatto sta che l’equilibrio faticosamente raggiunto tra te e il calcio barcolla pericolosamente: “Non eravamo d’accordo che ci saremmo ignorati? Io stavo rispettando i patti!”. Il punto è che sei un uomo e che sei cresciuto in Italia. E qualsiasi ragazzo cresciuto in Italia lo sa benissimo. Il calcio o lo ami alla follia o finisci inevitabilmente per odiarlo.

Una volta il grandissimo poeta e Premio Nobel Eugenio Montale disse in un’intervista: “Io faccio sempre un sogno. Sogno che un giorno nessuno farà più gol in tutto il mondo”.

Ecco, anch’io.

La Storia mi occhieggia da un angolo

La Storia mi occhieggia da un angolo

Sono a pranzo in un ristorante, un posto senza pretese, decisamente ordinario. Mentre, un po’ annoiato, aspetto l’antipasto, una porta lasciata sbadatamente aperta alle mie spalle mi svela uno scorcio surreale: un busto di Mussolini campeggia in un angolo e lancia uno sguardo severo su tutta la stanza. La mia prima reazione è di incredulità, devo mettere a fuoco meglio: è proprio quello che penso? La seconda di curiosità: quando una porta socchiusa nasconde inaspettatamente la Storia, non ci si può voltare dall’altra parte e fare finta di non aver visto. Mi avvicino e scatto una foto, la pubblico su Instagram con un commento volutamente ironico e irriverente: “Nostalgia, nostalgia canaglia”.

Le reazioni dei miei contatti al vedere questa foto sono diverse: c’è chi mi chiede allarmato cosa significhi, chi non troppo velatamente mi dà del fascista, chi dice che “potevo evitare”. Ma la maggior parte delle persone rimane congelata nel dubbio: “Se faccio like la gente penserà che sono fascista anch’io?”.

Quello che mi colpisce di tutta questa storia è che, quasi un secolo dopo la marcia su Roma, la foto di un busto del Duce faccia ancora paura, che si guardi ai tragici, dolorosissimi eventi del Novecento come se fossero ancora ferite aperte. Probabilmente lo sono. Eppure sono eventi che nessuno della mia generazione né di quella precedente può aver vissuto in prima persona.

Io sono veramente stanco di tutto questo. Sono stanco di guardare film sulla Seconda Guerra Mondiale, sono stanco di leggere libri sui partigiani e sulla Resistenza, sono stanco di celebrare giornate dedicate alla commemorazione di massacri disumani. Vorrei vivere in un Paese che riesca a metabolizzare il proprio passato senza per questo dimenticarlo, che riesca ad affrontare i propri fantasmi e a elaborare i propri lutti. Dove si possa lasciare che la Storia sia Storia e non si trasformi quotidianamente in attualità, in politica, in cronaca, dove si possano archiviare gli avvenimenti trascorsi e guardare avanti, insieme, per costruire un futuro diverso e migliore.

“Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.”

(Salvatore Quasimodo, Uomo del mio tempo)

Il tombino poetico

Il tombino poetico

Cammino distrattamente in una piazza ristrutturata recentemente, quando all’improvviso il mio piede si poggia su un oggetto metallico. Un tombino. Niente di più banale in una strada cittadina. E tuttavia la particolarissima foggia di questo tombino attira la mia attenzione: al posto del solito reticolato antiscivolo ci sono una serie di incisioni, da cui emergono alcune parole, una citazione dalla Divina Commedia.

Ora, andrebbe spiegato che questo tombino è posto di fronte all’ingresso del deposito nel quale viene conservato un carro folkloristico utilizzato durante una cerimonia tradizionale fiorentina, ma in verità i versi di Dante che vi sono riportati non si riferiscono affatto a questo particolare carro, ma descrivono anzi un carro celeste che rievoca la biblica visione di Ezechiele, un simbolo della Chiesa, un mezzo per ascendere a Dio, insomma quanto di più lontano si possa immaginare da un carro folkloristico. Eppure l’architetto che ha ristrutturato la piazza ha pensato bene di far incidere questi versi sul tombino. D’altro canto una citazione della Divina Commedia ci sta sempre bene. Ovunque. Anche per terra.

Esito ancora un po’, amareggiato dal constatare come Firenze si dimostri per l’ennesima volta una città incapace di guardare avanti, avviluppata al proprio passato anche quando cerca di rinnovarsi, incatenata al mito di sé stessa fino a trasformarsi in una grottesca caricatura del suo antico splendore, una polverosa vetrina per lusingare mandrie di turisti frettolosi e superficiali.

Sospiro e riprendo il cammino. E mentre inevitabilmente il mio piede calpesta e insozza gli eterni versi del Vate, rifletto sulla differenza tra un omaggio e un oltraggio.

Il raffinato video di “Turn up the radio”

E’ stato reso pubblico da qualche giorno il video di “Turn up the radio”, l’ultima fatica discografica di Madonna. L’evento in questo caso non è la canzone in sé (l’ennesimo pezzo dance dal motivetto orecchiabile), ma il fatto che il video sia stato girato qui da noi, a Firenze.

Firenze. Un nome che nel mondo è sinonimo di arte, di storia, di morbide colline coperte di vigne, sulle quali matura l’uva per il suo Chianti. Un’immagine un po’ stantia, lo ammetto. Ottocentesca, polverosa, addirittura crepuscolare. Eppure forse proprio per questo piena di quel fascino che hanno le cose antiche, l’odore del tempo trascorso, i colori sbiaditi che trafiggono il nostro sguardo evocando ricordi lontani. Riesco solo vagamente a immaginare quale straordinario scenario possa offrire una città ricca di arte e di storia come Firenze a una persona proveniente da un paese “giovane” come l’America. Quale imperdibile occasione.

Poi guardo il video. Sinossi: Madonna, conciata come una prostituta, esce dal suo albergo in Piazza Ognissanti, scocciatissima per la folla di fan e giornalisti; l’autista la porta in Mugello, dove raccatta una serie di personaggi assolutamente improbabili e fuori luogo, mentre si alternano scene che la vedono nuovamente in città (sui lungarni), in piedi sul sedile della macchina, mentre indica eccitatissima in una direzione indefinita, seguita da un codazzo di fan (che ora a quanto pare non la infastidiscono più). Fine.

L’intero video non mostra nemmeno un’immagine che permetta di identificare chiaramente in Firenze la città che fa da sfondo. Una città anonima. Una città qualsiasi. Vengo poi a sapere che il programma originale prevedeva di girare il video a Roma, ma che poi per questioni logistiche legate alle date del tour si è optato per Firenze. Mi rendo conto che per un americano è difficile comprendere la differenza culturale, storica e architettonica che separa due città come Roma e Firenze, ma d’altro canto, vista la considerazione con cui è stata trattata la culla del Rinascimento, probabilmente una qualsiasi città del mondo sarebbe andata benissimo lo stesso. In fondo serviva solo un fondale più o meno cittadino nel quale impiantare una versione rozza e surreale di una periferia americana.

Ma forse non dovrei meravigliarmi, ben ricordando il video di “Like a virgin”, girato a Venezia. Si poteva anche pensare, però, che il periodo storico più sobrio, la maggiore maturità e i mezzi più ingenti a disposizione avrebbero prodotto un risultato migliore. Invece viene quasi da rimpiangere “Like a virgin”: lì se non altro le trovate trash e la terribile moda degli anni 80 non erano stati sufficienti a nascondere la composta eleganza della bellissima città lagunare.

Evidentemente il buon gusto non si può comprare.

I questuanti

Pubblicato: 26 giugno 2012 in AcidaMente
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Una scena dal film “L’aereo più pazzo del mondo”: il mio sogno inconfessato!

Si appostano nei vicoli pronti a saltarti addosso, ti inseguono nelle piazze cercando di afferrarti, nei casi peggiori ti circondano da diversi lati, rendendo la fuga impossibile. Io li definisco genericamente “i questuanti”: tutte quelle persone che, mentre stai camminando tranquillo per i fatti tuoi, ti fermano per parlarti di poveri gattini abbandonati, di comunità di recupero, di sventure proprie o altrui, in tutti i casi con l’unico scopo fondamentale di estorcerti denaro.

Io non amo questo modo di raccogliere fondi, mi sento aggredito, e non fa molta differenza per me se si tratta di una zingara con la mano protesa o dell’addetto del WWF con la sua brava pettorina. Se desidero salvare le balene o fare della beneficenza sarò io a cercare i canali giusti per dare il mio contributo. Perché dovrei essere costretto a spiegare per la milionesima volta a un perfetto sconosciuto il motivo per cui il suo sguardo di disapprovazione non mi fa sentire affatto in colpa, ma riesce soltanto a irritarmi?

Esagerato? Forse. Eppure sarà per via della bella stagione che li fa uscire tutti all’aperto, sarà il caldo che mi rende più insofferente, sarà Firenze che è particolarmente presa d’assalto, fatto sta che il tragitto che percorro quotidianamente tra la mia casa e l’ufficio pullula di questuanti. L’altro giorno, ad esempio, ho incontrato – e schivato – nell’ordine: i volontari di Save The Children (pettorina rossa), una donna che chiedeva l’elemosina, una coppia di (presunti) artisti di strada che cercavano invano di far roteare nell’aria tre birilli, due punkabbestia con relativi cani al seguito, un gruppo di indiani abbigliati come se fossimo nel Far West che suonavano “Imagine” col flauto di pan (alla storpiatura di pezzi bellissimi con questo orrendo strumento potrei dedicare un intero post!), i ragazzi di Greenpeace (pettorina verde) e poco più avanti quelli della cooperativa Emmaus. Direi che ce n’è abbastanza per esasperare una persona!

Per sopravvivere al percorso e arrivare a casa indenne, ho quindi elaborato una serie di strategie. Innanzitutto tenere gli occhi aperti per cercare di individuare il questuante il prima possibile: avere un vantaggio può rivelarsi fondamentale, a volte è sufficiente attraversare la strada o farsi scudo di un altro ignaro passante. Una tattica praticamente infallibile è il cellulare: se siete al telefono (o fingete di esserlo) difficilmente verranno a importunarvi. A volte, ma non sempre, è sufficiente anche solo armeggiare con il telefonino, come per scrivere un SMS. In tutti i casi, comunque, è bene allungare il passo.

Tuttavia, prima o poi vi capiterà di non essere abbastanza pronti, di essere colti di sorpresa, magari alla fine di una giornata pesante, quando le vostre difese sono al minimo e camminavate distratti o sovrappensiero. A questo punto, non vi resta che dare libero sfogo alla vostra capacità di improvvisazione, perché non sempre – ahimé – è sufficiente un ostinato rifiuto.

“Posso farle qualche domanda?”
“Mi spiace, ma vado di fretta, perdo l’autobus!”

“Posso rubarle un attimo per parlare del Kirgizistan?”
“Sorry, I don’t speak italian…”

“Ciao, un contributo per la pubblicazione di Lotta Comunista?”
“…Lotta Comunista?” (qui generalmente segue un attimo di sbandamento per fare mente locale sul fatto che sì, siamo davvero nel XXI secolo!) “…no, grazie” (in genere in questo caso è sufficiente il sorriso spontaneo che non riesco a trattenere per far capire al questuante che difficilmente darò alcun contributo!)

“Una firma contro la droga…”
“No, guardi, mi dispiace, ma io sono a favore!”

I numeri che "creano frustrazione" nei ragazzi italiani

I numeri che “creano frustrazione” nei ragazzi italiani

Qualche settimana fa la scuola italiana è stata investita da una polemica innescata dal preside dell’illustre liceo Berchet di Milano, che ha proposto l’abolizione dei voti inferiori al 4, con la motivazione che “i due e i tre creano troppa frustrazione nei ragazzi”. La notizia rimbalza da un collegio dei docenti a un altro attraversando l’intera Penisola; qui a Firenze il dirigente di una scuola si spinge addirittura ad affermare che i voti inferiori al 5 sono diseducativi. Praticamente a scuola puoi andare benissimo, molto bene, bene, benino oppure non bene. Se non vai bene, non vai bene. Fine. Senza sfumature.

L’insufficienza, come la famosa livella di Totò, appiattisce. Tutti uguali: lo sfaticato che non ha mai aperto un libro è uguale a quello che studia e si impegna ma non riesce a raggiungere la piena sufficienza, chi fa scena muta è allo stesso livello di chi è appena al di sotto della soglia minima.

Forse è solo un problema di forma, eppure sono fermamente convinto che è proprio dalla scuola che partono certe dinamiche sociali, che si sviluppa la mentalità collettiva dell’Italia di domani. Tutti si riempiono la bocca con parole come meritocrazia e concorrenza, ma un sistema che premia i migliori deve necessariamente punire i peggiori altrimenti corre verso il collasso. Ma in Italia questo è un concetto fastidioso, penalizzare i fannulloni non fa parte della nostra cultura, sospesi come siamo tra un’idea parecchio distorta di uguaglianza e la segreta paura che la prossima testa a rotolare sia la nostra.

E questa mentalità meschina, questo triste appiattirsi della nostra società parte proprio da lì, dalla scuola, da una generazione di giovani cresciuti nella bambagia, abituati a trovare porte aperte, strade spianate. Troppo fragili per poter affrontare un brutto voto. Non certo intimoriti dalle possibili reazioni dei genitori, abituati come sono a essere difesi a spada tratta da loro, quanto piuttosto per l’afflizione psicologica che la sconfitta porta con sé.

Ma andiamo avanti, continuiamo così a rimandare il momento in cui questi ragazzi dovranno fare i conti con la vita, con le sue delusioni, le sue amarezze, le sue prosaiche verità. E continuiamo a crescere dei delicatissimi bambinoni pieni zeppi di insicurezze e di problemi. Perché, come ammette lo stesso preside della Berchet, questi ragazzi “sono diversi da come eravamo noi”. Già, diversi, fragili, meno adatti ad affrontare la vita. Ma siete stati proprio “voi”, la vostra generazione (fortunatamente ho ancora l’età per potermene tirare fuori) a tirarli su così. E ora, pur di non ammettere di aver sbagliato, perseverate nell’errore.

La mail di benvenuto nel club Pampers...

La mail di benvenuto nel club Pampers...

Solo quando si ha un figlio ci si rende veramente conto della quantità industriale di pannolini necessari per una creatura così piccola. Nel giro di un anno non so quante confezioni ne avremo comprate, sempre rigorosamente marchiati Pampers (a quanto pare, gli unici degni di accogliere le deiezioni di mia figlia). Quasi ogni confezione contiene cartoline di concorsi e promozioni che regolarmente cestiniamo, poco propensi a credere nella dea bendata. Ma stranamente l’ultima volta che abbiamo acquistato una confezione multipla di pannolini mia moglie ha insistito per partecipare alla promozione perché “si sentiva” che ci saremmo aggiudicati uno dei premi in palio (lo dico subito per non creare aspettative: naturalmente non abbiamo vinto nulla!).

Alla prima occasione, quindi, mi connetto al sito della Pampers per inserire il codice del concorso, dato che mia moglie è deputata alle percezioni extrasensoriali, mentre ogni tipo di interazione con la tecnologia è compito mio. Naturalmente per partecipare al concorso l’azienda ti richiede una registrazione completa con tutti i tuoi dati e quelli di tuo figlio, che userà poi negli anni a venire per martellarti di pubblicità (probabilmente starò ancora cancellando mail promozionali dei pannolini quando mia figlia compirà gli studi universitari!). Vabbè. Inserisco tutti i miei dati anagrafici. Quindi mi viene richiesto il mio “stato”: le scelte possibili sono “già mamma”, “in attesa” o “entrambe (mamma e mamma in attesa)”; nella riga sottostante, un’opzione isolata e un po’ sfigata riporta anche la dicitura “papà” (ora, avendo indicato tra i dati anagrafici anche il mio sesso, ci si poteva aspettare che non fossi né una mamma né tantomeno una mamma in attesa, ma immagino che pretendere una preselezione del box fosse chiedere troppo…vabbè). Invio i dati, mi arriva una mail di conferma: nel bel mezzo campeggia in grande la scritta: “Ciao Tiziano, e benvenuta su Pampers.it!”. Ora, a prescindere dalla dubbia opportunità di mettere una virgola prima della congiunzione, quello che più di tutto ha attirato la mia attenzione è l’aggettivo di genere femminile.

Ma come? Ti indico tra i dati anagrafici che sono un maschio, seleziono l’apposita voce “papà” per indicare il mio “stato” e tu, Pampers, non puoi fare lo sforzo di concordare correttamente un aggettivo? Ma non è solo una negligenza, è un modo di pensare diffuso: sono le mamme che si occupano dei pannolini, delle pappe, dei vestiti dei bambini. Ogni prodotto per la prima infanzia è pensato per un target femminile; un uomo che si occupa di queste cose viene immediatamente etichettato come un “mammo”, diventa meno virile, quindi niente di strano ad affibbiargli un aggettivo di genere femminile.

Allora io vorrei rivolgermi alle donne, a tutte quelle donne che si lamentano che i loro compagni non si occupano dei figli o dei lavori domestici, a quelle donne che affermano che gli uomini dovrebbero vivere una paternità consapevole, che dovrebbero prendersi i permessi dal lavoro per occuparsi dei figli, a quelle donne che chiedono la parità dei sessi io vorrei dire che è da qui che dovrebbero partire, dal cambiare questa mentalità, dal togliersi dal viso quel sorriso divertito e riconoscere che anche questa è discriminazione.

Fratelli di taglia

Pubblicato: 16 gennaio 2012 in AcidaMente
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Saldi convenienti, ma solo se hai la taglia giusta

Saldi convenienti, ma solo se hai la taglia giusta

Nella società moderna, che ci impone di essere sempre magri, con la pancia piatta e che ci ha privato del piacere di addentare un dolce sommergendoci di sensi di colpa, c’è un periodo dell’anno (anzi due) in cui invidio gli omoni con la pancia debordante, quelli ben piazzati, che da soli occupano due posti sull’autobus. E’ il periodo dei saldi.

Dato che sia io che mia moglie siamo decisamente insofferenti alla folla e che non amiamo accalcarci nelle strade piene di gente o sgomitare all’interno dei negozi, invariabilmente aspettiamo almeno che passi una decina di giorni dall’inizio dei saldi prima di arrischiarci a entrare in qualche negozio.

E’ in questa occasione che mi riscopro essere l’uomo medio, l’italiano medio, almeno fisicamente: sembra che tutti portino la mia taglia, tutti il mio numero di scarpe, tutti hanno scelto lo stesso esatto colore e modello che avrei scelto io. Naturalmente non c’è rimasto più nulla di decente per la mia taglia, ma in compenso le stampelle e gli scaffali strabordano di bellissimi pantaloni taglia 56, di scontatissime maglie XXL, da abbinare con delle fantastiche scarpe numero 46.

Ora, io vorrei chiedere alle aziende che producono abbigliamento: se (come sembra) la quasi totalità degli uomini italiani ha una taglia M, il 48 di pantaloni e il 43 di scarpe, allora perché – ditemi – perché continuate a produrre una quantità smodata di vestiti con taglie esagerate che restano immancabilmente invenduti? Non potreste produrre una quantità maggiore di vestiti di taglia media? E voi, omoni dalle taglie forti, perché non vi vedo in giro a fare shopping quando c’è quest’abbondanza di scelta ad attendervi? Considerate la vostra fortuna, apprezzate la vostra unicità, il vantaggio di essere italiani pur non essendo fratelli di…taglia.

La civetta ci ricorda che iniziano le occupazioni

La civetta ci ricorda che iniziano le occupazioni

Passando accanto a un’edicola qualche giorno fa mi è caduto l’occhio sulla civetta di Repubblica che titolava: “Scuola, iniziano le occupazioni”. Un titolo apparentemente banale, anzi uno di quei titoli che ti fanno pensare che non c’erano altre notizie importanti in quella giornata. Ma è proprio questa semplicità, la naturalezza con cui viene comunicata questa informazione che mi sorprende. “Cominciano le occupazioni”, come se si trattasse di una questione stagionale, un evento ciclico e naturale: è ottobre, inizia l’autunno, arrivano i primi freddi e cominciano le occupazioni.

Non sono poi così tanti anni che ho lasciato la scuola e già allora c’era il periodo degli “scioperi” (le virgolette sono d’obbligo, dato che, come giustamente osservava la mia professoressa di lettere, solo chi lavora può scioperare, non certo uno studente che usa invece a sproposito una parola importante, un diritto conquistato con le lacrime e il sangue). Ora addirittura si salta la fase della protesta in piazza, della manifestazione, per approdare direttamente all’occupazione o all’autogestione. In entrambi i casi, allora come oggi, sono convinto che l’unica vera motivazione che spinge i ragazzi (o almeno, quasi la totalità di loro) a queste azioni dimostrative sia il desiderio di interrompere, anche solo momentaneamente, l’attività scolastica, di procrastinare l’inizio delle lezioni, di accorciare l’anno scolastico (casualmente queste operazioni avvengono sempre in autunno, nessuno di questi facinorosi organizzatori si sognerebbe di fare un’occupazione a maggio, quando sono tutti lì a cercare di recuperare, con l’ultima interrogazione, i voti negativi dei mesi precedenti).

Come tante cose nel nostro Paese, anche questa viene presa alla leggera, senza alcuna serietà, senza alcuna assunzione di responsabilità. Io penso invece che non si può passare davanti a un’edicola, leggere questa notizia e non indignarsi (una parola di gran moda oggi). Non si può accettare supinamente ogni sciocchezza, ogni vergognosa finzione. A novembre, quando il freddo spingerà di nuovo in classe le teste più calde, i professori si ritroveranno con i programmi ministeriali ancora da cominciare, interrogazioni e compiti in classe da fare e dovranno necessariamente condensare tutto in un tempo ancora più breve, fornendo senz’altro un servizio peggiore ai loro studenti.

Come chiosa, riporto un dialogo reale, avvenuto qualche giorno fa in una scuola “autogestita” tra uno studente (S) e una professoressa (P):
P: Allora, come vi siete organizzati?
S: …boh…
P: Ma lo sapete che in un’autogestione dovreste organizzare voi l’attività scolastica? Che corsi avete previsto?
S: …boh…noi pensavamo che i professori vengono lo stesso in classe e si parla così, del più e del meno…