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I numeri che "creano frustrazione" nei ragazzi italiani

I numeri che “creano frustrazione” nei ragazzi italiani

Qualche settimana fa la scuola italiana è stata investita da una polemica innescata dal preside dell’illustre liceo Berchet di Milano, che ha proposto l’abolizione dei voti inferiori al 4, con la motivazione che “i due e i tre creano troppa frustrazione nei ragazzi”. La notizia rimbalza da un collegio dei docenti a un altro attraversando l’intera Penisola; qui a Firenze il dirigente di una scuola si spinge addirittura ad affermare che i voti inferiori al 5 sono diseducativi. Praticamente a scuola puoi andare benissimo, molto bene, bene, benino oppure non bene. Se non vai bene, non vai bene. Fine. Senza sfumature.

L’insufficienza, come la famosa livella di Totò, appiattisce. Tutti uguali: lo sfaticato che non ha mai aperto un libro è uguale a quello che studia e si impegna ma non riesce a raggiungere la piena sufficienza, chi fa scena muta è allo stesso livello di chi è appena al di sotto della soglia minima.

Forse è solo un problema di forma, eppure sono fermamente convinto che è proprio dalla scuola che partono certe dinamiche sociali, che si sviluppa la mentalità collettiva dell’Italia di domani. Tutti si riempiono la bocca con parole come meritocrazia e concorrenza, ma un sistema che premia i migliori deve necessariamente punire i peggiori altrimenti corre verso il collasso. Ma in Italia questo è un concetto fastidioso, penalizzare i fannulloni non fa parte della nostra cultura, sospesi come siamo tra un’idea parecchio distorta di uguaglianza e la segreta paura che la prossima testa a rotolare sia la nostra.

E questa mentalità meschina, questo triste appiattirsi della nostra società parte proprio da lì, dalla scuola, da una generazione di giovani cresciuti nella bambagia, abituati a trovare porte aperte, strade spianate. Troppo fragili per poter affrontare un brutto voto. Non certo intimoriti dalle possibili reazioni dei genitori, abituati come sono a essere difesi a spada tratta da loro, quanto piuttosto per l’afflizione psicologica che la sconfitta porta con sé.

Ma andiamo avanti, continuiamo così a rimandare il momento in cui questi ragazzi dovranno fare i conti con la vita, con le sue delusioni, le sue amarezze, le sue prosaiche verità. E continuiamo a crescere dei delicatissimi bambinoni pieni zeppi di insicurezze e di problemi. Perché, come ammette lo stesso preside della Berchet, questi ragazzi “sono diversi da come eravamo noi”. Già, diversi, fragili, meno adatti ad affrontare la vita. Ma siete stati proprio “voi”, la vostra generazione (fortunatamente ho ancora l’età per potermene tirare fuori) a tirarli su così. E ora, pur di non ammettere di aver sbagliato, perseverate nell’errore.

I libri di scuola

I libri di scuola

Mi ha incuriosito un articolo comparso recentemente su Repubblica intitolato I consigli dell’Ocse ai prof “Non bocciate, è dannoso”. Con la capacità di sintesi tipica dei giornalisti, che riescono a ridurre un testo di 160 pagine a uno striminzito slogan sensazionalistico, l’articolo condensa il rapporto dell’OCSE sull’istruzione e lo traduce nell’invito a evitare di bocciare gli studenti, in quanto risulterebbe inutile e addirittura dannoso per gli alunni “in difficoltà”, con una serie di ripercussioni sociali che vanno dal ritardato ingresso dei giovani nel mondo del lavoro fino ai costi aggiuntivi che vengono a gravare sul bilancio di uno Stato (proprio in un periodo di crisi come questo!) a causa degli studenti ripetenti.

Ecco, quando sento questi discorsi mi domando: ma a cosa serve davvero la scuola? E’ solo un posto dove parcheggiare i figli quando i genitori sono al lavoro? Quando ero ancora giovane e ingenuo, traviato da termini come “insegnante” o “insegnamento”, dai voti e dalle pagelle, ero convinto che lo scopo della scuola fosse quello di insegnare, ovvero di trasmettere la conoscenza da una generazione a quella successiva. Figuriamoci: la conoscenza crea disparità sociale e inoltre un sistema di questo tipo implicherebbe che si dovrebbe bocciare un ragazzo magari perché non sa chi sia Carlo Magno o cosa sia il complemento d’agente. Tutto sbagliato. Mi è stato spiegato infatti che la scuola non deve insegnare, ma deve formare: termine piuttosto fumoso che può comprendere tutto e niente ma che nell’accezione comune dovrebbe significare che l’istituzione scolastica deve educare, far maturare i ragazzi, aprirgli la mente proponendogli punti di vista differenti e insomma farli diventare gli uomini e le donne del domani (auspicabilmente migliori di quelli di ieri e di oggi). Questo concetto, molto bello e nobile, oltre che decisamente utopistico, si traduce nel fatto che nelle scuole gli insegnanti continuano a spiegare la propria materia e a interrogare i ragazzi (che altro dovrebbero fare?!?), ma a fine anno, anziché basare il proprio giudizio sulle conoscenze apprese da uno studente, sono costretti a valutare parametri molto meno oggettivi come la disciplina, la costanza ma soprattutto l’importantissimo impegno (da cui deriva una serie di espressioni diventate emblematiche: “ha preso 4 per tutto l’anno, ma si vede che nell’ultimo mese si è impegnato”, “eppure le assicuro che mio figlio si impegna tanto!”, “è intelligente, ma non si impegna”, quest’ultima anche nella variante “non si applica”). Va da sé che con l’impegno non si impara chi sia Carlo Magno, né tantomeno il complemento d’agente, ma si continua allegramente a rilasciare diplomi a gente che a malapena conosce l’italiano. Ma per carità, evitiamo di urtare la loro sensibilità.

Ora poi si fa il salto di qualità: basta con le bocciature, basta (di conseguenza) con i giudizi sugli studenti. Si annienta completamente ogni tipo di premio per chi studia con profitto e ogni tipo di penalizzazione per chi invece non ha mai aperto un libro. In un sistema del genere, quale dovrebbe essere l’incentivo che spingerà i ragazzi a studiare, che eviterà che si appiattiscano nella mediocrità, che li spingerà a eccellere? Il messaggio che stiamo dando alle nuove generazioni è che a loro non è richiesto niente, né impegno né sudore né senso del dovere, che per andare avanti nella vita non è necessario fare nulla, che comunque vadano le cose ci sarà sempre qualcuno pronto a giustificare i loro errori e i loro fallimenti, a sollverli da ogni responsabilità, che non è chi resta indietro che si deve affrettare per recuperare il passo, ma è il mondo intero che deve fermarsi ad aspettarlo. Dovrà pur campare, no? Del resto campare è sempre stata la nostra specialità.