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Porte solitarie senza più gol

Porte solitarie senza più gol

Qualsiasi ragazzo cresciuto in Italia lo sa benissimo. Il calcio è una cosa importante. Una passione. Una religione. Qualcosa di imprescindibile.

Cominci sin da piccolo giocando con le figurine Panini, quando volente o nolente devi professare l’appartenenza a una qualche tifoseria, dato che gli altri bambini ti chiedono “Di che squadra sei?” ancor prima di domandarti “Come ti chiami?”. Prosegui poi durante l’adolescenza, quando la metà delle conversazioni dei tuoi coetanei ha come oggetto il calcio (l’argomento principale dell’altra metà delle conversazioni è facilmente intuibile). Ma quando raggiungi l’età adulta puoi finalmente fare coming out e rispondere “Guarda, a me il calcio non interessa” ogniqualvolta qualcuno ti chiede “Di che squadra sei?” (sì, come il lettore più arguto potrà dedurre, non c’è una grossa evoluzione nelle conversazioni maschili dall’infanzia in poi). Tendenzialmente, di fronte a una risposta di questo genere, le persone ti guardano con un misto di incredulità e compassione, ma, superato lo shock iniziale, di solito continuano a considerarti parte del grande e variegato universo del genere umano. Ottimo. Pensi che alla fine tu e il calcio avete trovato il modo di convivere pacificamente.

Poi una sera accendi la televisione e il telegiornale ti informa che una certa squadra ha battuto un’altra squadra. Normalmente è difficile che tu apprenda queste informazioni dalla televisione, visto che cambi canale prima della pagina sportiva. In questo caso però non puoi farlo perché si tratta del servizio di apertura del telegionale. Il servizio di apertura. La notizia più importante della giornata. Un reportage che mostra l’esultanza dei tifosi. Capisco. Okay, vediamo questo servizio. Gente che urla e sventola bandiere. Poi fermano alcuni tifosi per avere le reazioni a caldo. Ne mostrano quattro. Ben due di questi, cioè la metà del campione, affermano che questo è il giorno più bello della loro vita. Il giorno più bello della loro vita perché la loro squadra del cuore ha vinto una partita. No, riflettiamoci.

Il giorno più bello della loro vita.

Evidentemente hanno avuto una vita molto triste. Accanto a uno di questi due c’è un piccolo bambino esultante, anche lui vestito dei colori della squadra del cuore (del padre). Non appare nemmeno turbato dal fatto che suo padre abbia appena pubblicamente dichiarato che il giorno più felice della sua vita non è quello in cui è nato lui o quello in cui ha pronunciato per la prima volta la parola “papà”, ma il giorno più felice della sua vita è proprio questo, oggi, perché la sua squadra ha vinto una partita a pallone.

Ma sì, sì, lo so. Sono cose che si dicono, iperbole. Speriamo. Certo che poi non ti stupisci più quando scopri che il quotidiano di gran lunga più letto in Italia è la Gazzetta dello Sport, che ha una tiratura enormemente superiore a quella de La Repubblica o Il Corriere della Sera. Panem et circenses, l’avevano scoperto già duemila anni fa, niente di nuovo sotto il sole.

Fatto sta che l’equilibrio faticosamente raggiunto tra te e il calcio barcolla pericolosamente: “Non eravamo d’accordo che ci saremmo ignorati? Io stavo rispettando i patti!”. Il punto è che sei un uomo e che sei cresciuto in Italia. E qualsiasi ragazzo cresciuto in Italia lo sa benissimo. Il calcio o lo ami alla follia o finisci inevitabilmente per odiarlo.

Una volta il grandissimo poeta e Premio Nobel Eugenio Montale disse in un’intervista: “Io faccio sempre un sogno. Sogno che un giorno nessuno farà più gol in tutto il mondo”.

Ecco, anch’io.

La giostra

Pubblicato: 28 marzo 2011 in Il Timido Ubriaco
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Una giostra tradizionale

Una giostra tradizionale

Sarà pure una metafora della vita, sicuramente fa tanto belle epoque, specie se ci sono ancora cavalli e carrozze invece delle più moderne astronavi, eppure a me la giostra, in qualsiasi forma sia, mi fa tanta tristezza. Credo di essere stato un bambino felice, spensierato, eppure la giostra mi richiama alla mente quella parte un po’ polverosa, un po’ ingiallita e malinconica dell’infanzia. Un po’ come i clown del circo, il costume di carnevale da Pierrot, gli infiniti orrendi testi della letteratura per l’infanzia (quante persone hanno preso per sempre in odio la lettura dopo il traumatico, e obbligatorio, incontro con “Capitani Coraggiosi”, il libro “Cuore” o “Il richiamo della foresta”?).

La giostra per me è un ricordo associato a questo mondo, a questo pesantissimo retaggio dell’Ottocento che affliggeva ancora la mia generazione ma dal quale fortunatamente le generazioni successive si sono salvate. Ora i bambini passano il tempo alla Playstation, hanno giocattoli sofisticati, viaggiano in lungo e in largo per il mondo dietro ai genitori. Già, eppure. Eppure, la giostra in piazza è sempre affollata di bambini che smaniano per salire, solo un altro giro papà. Boh. Valli a capire.

Quegli inquietanti cavalli dai colori sbiaditi, le espressioni imbarazzate dei padri che accompagnano i bambini piccoli nel giro (e che sembrano voler dire al mondo: “Lo faccio per il bambino, ma io no, non mi sto divertendo affatto, anzi mi viene anche un po’ da vomitare”), i saluti delle nonne che ad ogni giro si fanno più stanchi, quando il movimento circolare riporta davanti a loro i nipotini, che imperterriti e instancabili agitano le manine.

Mi vengono i brividi. No, proprio non la posso soffrire la giostra.